Pubblico, non pubblico, come pubblico, quando pubblico. Faccio marketing o non lo faccio, e come lo faccio? È meglio il self publishing, è meglio un editore, lo metto su Internet, lo metto sul blog.
Qual è la tua definizione di successo? Perché la chiave sta tutta lì.
Fermi un attimo e ragioniamo.
La prima cosa che serve è un buona storia. Se non hai una buona storia, tutte queste domande hanno poco senso. E come fai a sapere se hai una buona storia? Prima di tutto ne devi finire una.
Il buon marketing editoriale comincia molto prima di avere pubblicato, è vero, ma intanto questa benedetta storia va finita. In quanti siete che cominciate, cominciate e non finite mai?
Io credevo che avrei finito per ottobre, poi per dicembre. Invece non ho ancora finito, perché il mio editor mi ha sacagnato così duramente che lei – la storia – ed io ci stiamo curando i lividi. Mi dicono dalla regia che il primo editing è parecchio doloroso, ma mi si dice anche che si impara moltissimo – per fortuna – e che vale la pena spenderci i soldi che spenderesti per un corso di scrittura. Addirittura. E io ci credo, oh se ci credo. Ciò non toglie che faccia male, ve lo assicuro. Forse avete notato che ci sono meno in giro, non solo sul blog ma in generale; è perché ho l’ego dolente. In questo momento mi sento incapace di insegnare la qualunque a chiunque; sono in piena sindrome dell’impostore, e hai voglia tu, amico premuroso, a ripetermi che sono brava e che ho fatto questo e quell’altro: mi sento comunque una cacchetta. Passerà. Spero.
Che si diceva? Ah, sì: prima di tutto finire.
Subito dopo aver finito, bisogna vedere se la storia è abbastanza buona. Oddio, puoi anche pubblicare una ciofeca sgrammaticata; io sono la prima a difendere il tuo diritto di pubblicare dove, come e quando ti pare. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, ma lo dico, visti i rant contro il self publishing – alcuni al limite dello psicopatico – che continuo a leggere in giro.
Mettiamo però che t’interessi raccontare delle belle storie, magari anche in un italiano corretto e con uno stile accettabile. In questo caso, quando la storia è finita non devi farla leggere solo alla mamma e alle tre amiche che ti seguono su EFP, e che saranno sempre incoraggianti con te. Ti serve come minimo un paio di occhi diversi dai tuoi, ma meglio se sono di più, e questo è un punto fondamentale. Troppe volte ho sentito dire “ma io devo essere in grado di sistemare la mia storia”. No, ciccio. Se la pensi così, un po’ pecchi di presunzione e un po’ pare tu viva su Marte. Non hai mai sentito dire “Ogni scarrafone è bell’a mamma soia”? Senza contare la nausea. Perché se hai preso in mano il tuo romanzo dall’inizio alla fine almeno un paio di volte, che è il minimo sindacale, la nausea ce l’hai. Così forte che il Plasil ti fa un baffo.
Almeno un paio di quegli occhi in più, poi, deve essere professionale. Deve appartenere a qualcuno che ti sappia dire, in linea di massima, se la storia funziona. Per storia funzionante intendiamo una storia con un conflitto centrale interessante, ben costruito, ben svolto, ben risolto; e questo è – ancora – proprio il minimo sindacale. Poi c’è tutto il resto ma fermiamoci qui, per il momento.
Fatti i primi due passaggi? Ecco, allora adesso puoi decidere la cosa più importante: che cosa vuoi per la tua storia. E, prima ancora, che cosa vuoi per te stesso.
Prenditi un pomeriggio tranquillo, se te lo puoi permettere. O se no prenditi un’ora di libertà. Poi un quaderno e una biro, o apri una mappa mentale sul PC. Attenzione che quel che ti sto per dire è pericoloso: se non sei abituato a un po’ d’introspezione, potresti finire a scrivere I Massimi Sistemi Secondo Me, volume I. Non farlo, cerca di concentrarti su, diciamo, i prossimi cinque anni.
Cosa vuoi dalla tua scrittura nei prossimi cinque anni?
Le risposte possibili sono molteplici.
“Scrivo per divertirmi e voglio continuare così”
“Voglio essere letto e non m’importa d’altro”
“Voglio vivere di scrittura e mollare il mio lavoro di raddrizzatore di gambe dei cani”
“Voglio diventare uno scrittore professionista”
“Voglio fare soldi con i miei libri”
“Voglio che qualcuno mi chieda di poter fare un film con la mia storia”.
Che cosa è il successo, per te?
Scriviti una risposta onesta e fai attenzione: deve essere una risposta concreta. Dopodiché hai un ottimo punto di partenza per farti un piano per il futuro. Piano che dovrebbe tenere conto dei dati di realtà; mi puoi anche venire a dire che “è meglio la pubblicazione tradizionale”, ma se poi non trovi un cane che ti pubblichi, la tua preferenza te la puoi mettere in tasca. E, attenzione: non è detto che se non trovi un cane che ti pubblichi la tua storia faccia schifo, né che le tue storie tradizionalmente pubblicate non mi facciano sbadigliare fino a slogarmi la mascella. Il bello dell’editoria tradizionale è anche questo: che due professionisti ben pagati possano darti due pareri diametralmente opposti. Sulla stessa storia. Successo davvero, non me lo sono inventato. Può anche darsi, poi, che la tua Storia Tradizionalmente Pubblicata mi costringa a impugnare la penna rossa per segnarti tutte le cazzate, grammaticali e non, che sono sfuggite al tuo Grande Editore Tradizionale.
Ciò che vogliamo davvero deve guidare le nostre scelte; si tratta in primo luogo di assumersi delle responsabilità. Se siamo disposti a fare ciò che è necessario per tutto il tempo che ci vuole, non c’è (quasi) nulla che non possiamo fare.
(Eh ma l’editing costa. Comincia a smettere di fumare: vedi quanti soldi in più che ti ritrovi in tasca, e cuore e polmoni ringraziano, pure. Poi invece di comprarti la borsetta firmata cucita in India dai bambini, mettiti via quei quattrocento euro; ti fai almeno la scheda lettura, senza problemi.)
La scrittura rientra tra le cose mediamente possibili, per fortuna. Io non credo di avere molte possibilità di diventare prima ballerina alla Scala, ma di essere una scrittrice sì. In un certo senso, lo sono già.
Questo post è il mio commento a questo articolo di Daniele, e in parte risponde anche al post pubblicato oggi, sempre su Penna Blu. Non avevo un cavolo di voglia di ripetere sempre le solite cose, ma poi ho promesso che sarei passata di là o che almeno avrei scritto una risposta, quindi eccomi.
Ancora una cosa: mi rendo conto di quanto sia importante smettere di chiamare self publishing il self publishing. Bisogna chiamarlo pubblicazione indipendente. Bisogna definirsi autori indipendenti, o Indie se vi piace di più. E cambiare mentalità. Ma di questo parleremo ancora.