Il testo che segue è la traduzione di questo articolo di Hugh Howey, pubblicato sul suo sito il 22 maggio 2015. Non era previsto che ve lo proponessi oggi; l’intenzione era quella di tradurre un articolo di Joanna Penn sui pro e contro dell’essere un autore Indie, come avevo dichiarato qui. Arriva anche quello, ma il testo di Howey mi ha colpita molto e ho quindi deciso di dargli la precedenza.
Può dare fastidio, forse, per i toni. La scelta di delegare delle decisioni, quali e quante, è molto personale, mentre Hugh prende posizione in modo molto energico senza tenere conto di qualche sfumatura di grigio tra il bianco e il nero. Però, però… mi è piaciuto lo stesso. Tanto.
Mi è piaciuto perché (come scrivevo, mi pare, in un commento la settimana scorsa) anch’io credo – e l’esperienza mi conferma – che nelle trattative umane si debba sempre e comunque chiedersi: a chi conviene?
Una volta l’intermediario naturale tra lo scrittore e i lettori era la casa editrice, perlomeno nella maggioranza dei casi. Oggigiorno i servizi agli autori spuntano come funghi. Gli intermediari si moltiplicano. Di quali abbiamo davvero bisogno? La domanda merita una riflessione.
Preciso che non sono una traduttrice professionista; faccio altro per vivere, qui ho solo fatto del mio meglio. E ringrazio Marco Amato che mi ha ricordato di leggere l’articolo.
Buona lettura.
Affittare vs. Possedere qualcosa
Non vedevo l’ora di entrare in possesso della mia prima casa. Quello che intendo dire è, alla lettera, che non riuscii ad aspettare. Mancava ancora una settimana al giorno della firma del contratto e io già ero nella mia futura abitazione in Taft St. a Hollywood, a livellare il pezzo di terra del cortile sul retro, a spargere sabbia e stendere la pavimentazione. C’era un pergolato coperto, là dietro, e io volevo creare un patio dove prima c’era solo un mosaico di erba, terra e roccia friabile. Al centro del cortile c’era anche un enorme groviglio di viti che coprivano una vecchia vasca per i pesci. Presto avrei sistemato e messo in funzione anche quella.
Al proprietario della casa non dava fastidio il mio entusiasmo. In realtà, non gliene importava proprio niente. Era un adorabile signore gay che passò la settimana sorseggiando gazzosa sotto il nuovo patio, dispensando suggerimenti e consigli, mentre io lavoravo a quello che presto sarebbe stato il mio cortile. Non solo stavo scoprendo quanto mi sarebbe piaciuta la mia prima casa, ma anche quanto avrei amato migliorarla e lavorarci su.
Avevo avuto la stessa esperienza con la mia prima barca a vela, Serse. A volte rimanevo sveglio fino a dopo la mezzanotte, con una luce da minatore sulla fronte, a montare strani meccanismi sul ponte. Possedere qualcosa è prendersene cura. Soprattutto se si è lavorato duramente per guadagnare il denaro utilizzato per acquistare quella cosa. Quando qualcosa ci viene dato, o quando è solo affittato, è difficile metterci lo stesso impegno per la sua manutenzione e miglioramento. Non dico che non possa accadere, ma solo che c’è qualcosa di primordiale nello spazzare le nostre caverne e metterci un po’ di pittura rupestre.
Circola un mito, a proposito del self publishing, che ha a che fare con questo. A causa dell’erosione dei margini di profitto delle grandi case editrici, delle crescite risibili, c’è uno sforzo concertato per promuovere la pubblicazione tradizionale almeno come alternativa percorribile al fare da sé. Il settore si è mosso rapidamente dal beffarsi (lui aveva usato un termine molto vicino al nostro “spalare mer*a su”, n.d.t.) del self publishing al tentare di promuovere la figura dell’intermediario che fa soldi. Il che è comprensibile: vogliono attirare clienti e continuare a guadagnare dal nostro lavoro. Ma c’è qualcosa di enormemente sbagliato in molte delle loro argomentazioni, ed è nostro dovere mettere in evidenza questi errori agli occhi degli aspiranti autori.
In particolare, il mito a cui mi riferisco è quello che il self publishing richieda un sacco di duro lavoro, mentre la pubblicazione tradizionale significa che tutto quello che si deve fare sia finire la prima stesura.
Questa è una scemenza, è ovvio. Gli editori si aspettano che gli autori promuovano le proprie opere, che siano presenti ed attivi sui social media, che rispondano alle email, che partecipino a presentazioni, firme e interviste, e molto altro. E tutto ciò senza considerare l’enorme lavoro per arrivare semplicemente alla pubblicazione (cercare un agente, scrivere lettere di presentazione, proposte, tenere conto delle risposte, riscrivere la prima stesura).
Ma mettiamo pure da parte il fatto che autori di ogni levatura debbano farsi un fondello così (scusate ma era “to work their butts off”, n.d.t.) per campare di questo lavoro. Ciò che gli editori e gli esperti non capiscono, perché non lo hanno sperimentato, è che gli autori che si autopubblicano non lavorano più duramente perché sono costretti a farlo. Lavorano più duramente perché vogliono farlo.
Anche gli autori pubblicati tradizionalmente sono vittime di questo mito. Hanno sempre e solo affittato. Con una firma cedono la proprietà della loro arte, e ora timbrano il cartellino, si danno da fare in cambio di niente, e questa non è una motivazione a darsi da fare di più. È un disincentivo. Che è poi la ragione per cui molti autori hanno un altro lavoro, insegnano scrittura creativa, perdono tempo, improvvisano manoscritti all’ultimo momento e sprecano il loro prodigioso talento. Sono come i primi coloni europei che morivano di fame in una terra di prosperità perché sapevano che tutto il loro duro lavoro sarebbe stato depredato dalla compagnia che li finanziava.
Onestamente sono molto stupito che esperti, case editrici, agenti ed editor non lo capiscano. Vedono l’incredibile quantità di ore che gli autori autopubblicati ci mettono, e concludono che si tratti di un obbligo. Che quel lavoro sia necessario. Forse perché loro stanno tutti timbrando il cartellino e non sanno cosa significhi essere i padroni del proprio lavoro.
I piccoli imprenditori che leggono queste mie parole annuiscono con le loro teste imprenditoriali. Sono passati dal timbrare il cartellino al correre un rischio, a credere in se stessi, e quando hanno constatato che i loro sforzi portavano un risultato immediato e diretto, questo li ha spinti a lavorare ancora di più. E ‘questo meccanismo di ricompensa che si manifesta nel panorama del self-publishing, piuttosto che una necessità generata dal percorso di pubblicazione. C’è un grande sforzo, certo. Ma molto di quello sforzo rende felici.
La risposta davvero patetica a questo, anche quando alcuni, nel settore, capiscono la psicologia dietro al fatto che gli autori autopubblicati lavorino così tanto, è quella di dire: “Non tutti vogliono essere un piccolo imprenditore.” O semplicemente: “Non tutti vogliono possedere la propria casa “. E “Non tutti vogliono essere i capi di se stessi, lavorare per sé ed essere responsabili della propria vita “.
Che disumanizzazione. Non tutti vogliono un intermediario? La realizzazione di sé sta al posto più alto nella piramide dei bisogni di Maslow. Semplicemente, là fuori c’è un intero settore che cerca di fare il lavaggio del cervello agli artisti perché smettano di attribuire un valore alla libertà creativa che si è aperta loro grazie a semplici strumenti digitali e a tecnologie di stampa che hanno reso irrilevante l’intermediazione. C’è un intero settore che si regge sulla crudele arte dell’impotenza indotta.
Non c’è bisogno di fare tutto da soli se si autopubblica. Unitevi a un gruppo di critica. Formate un circolo di scrittura. Assumete un agente, un editor, un assistente o un promotore. “Ma mica tutti vogliono assumersi tutti quei rischi”, dice l’agente degli impotenti. Come se un anticipo di 15.000 dollari pagato in più di due anni sia un pesante fardello per loro o un gran risparmio per un artista. A parte il fatto che in ogni caso è l’artista ad assumersi il rischio.
L’autore che vuole proporsi a una casa editrice fa un doppio lavoro e scrive nei ritagli di tempo fino a quando non gli approvano quella prima, rozza stesura. Quelle ore sono soldi persi. E che cosa dovrebbero rischiare, invece, per possedere la propria arte invece di cederla? Il costo di autopubblicare un manoscritto editato in modo professionale, con una copertina ben fatta, è inferiore al costo di un PC, un furgone da lavoro, o il primo mese di affitto di un’area commerciale. Ogni libro è un piccolo business con bassissimi costi di avviamento. E i costi di produzione sono minimi e una tantum (editing e copertina). Dopo quelli, semplicemente fate l’upload, schiacciate un bottone e un partner commerciale fa il resto.
Il rischio vero è quello di svendere la propria arte, accettando contratti orridi, percentuali basse, e mettendo le decisioni sul prezzo nelle mani di colletti bianchi che vogliono proteggere certi percorsi verso i lettori a spese di qualcun altro. Oppure, dare fiducia ai colletti bianchi affinché trattino equamente e con competenza coi vostri principali partner commerciali. Questo è il rischio. Ed è un rischio che sempre meno autori vorranno assumersi, e la reazione saranno frottole e zombi-meme (Erica, grazie per l’aiuto su questo pezzetto) e campagne terroristiche da parte degli intermediari che stanno per essere tagliati fuori.
Ogni volta che ti mettono in guardia dal duro lavoro che richiede l’autopubblicazione, renditi conto che sbagliano alla grande. Il self publishing non richiede un sacco di duro lavoro in più, rende semplicemente il lavoro molto più allettante e gratificante, al punto che è molto probabile che, alla fine, ne farete anche di più. Chiunque abbia mai posseduto piuttosto che affittato qualcosa comprenderà la differenza. E chiunque sostenga che tutti quanti saremmo solo più felici affittando, o rinunciando al controllo del nostro sforzo creativo, o sbarazzandoci del nostro mandato di rappresentanza di noi stessi come esseri umani, vi sta vendendo qualcosa di cui sarebbe bene diffidare.
Che rapporto avete con le vostre creazioni? Siete disposti a cederne il controllo? A che prezzo?
Lisa Agosti dice
Questo articolo mi ha lasciato un po’ perplessa.
L’esempio della casa non regge: se non so come si costruisce, meglio che lo faccia fare a qualcun altro o farò più danni che altro.
Lo stesso vale per i libri: se non so impaginarli bene, meglio affidarmi a qualcuno che lo sa fare. Non ne posso più di scaricare estratti di e-book che sembrano parole vomitate a caso su una pagina, sia come contenuto sia come aspetto.
Grazie di aver tradotto l’articolo Serena!
Serena dice
Ma no, perché? La “casa” la costruisci tu. Poi, puoi e devi affidare ad un professionista ciò che non sei in grado di fare. L’editing e la copertina professionale, l’impaginazione e quanto tu non riesci o non hai voglia di imparare. Ma la proprietà resta tua, se ti tieni i diritti. Anch’io trovo l’articolo un po’ “estremo”, ma il punto non era “faccio tutto da solo perché tanto so fare tutto”, anzi. Chi fa SP seriamente ha come minimo messo in conto, appunto, editing e copertina eseguiti da professionisti.
(Prego^^ ma mi fa strano che mi ringrazi tu, che vivi da quelle parti e sai l’inglese sicuramente meglio di me XD )
Grazia Gironella dice
In questo campo credo sia vero tutto e il contrario di tutto. Sono ben convinta che esistono autori autopubblicati con questo atteggiamento di massimo impegno, ma non credo che siano la maggioranza, e questo crea un problema di credibilità per cui non vedo soluzione. Una cosa ritengo di avere imparato: la pubblicazione tradizionale non è sempre meglio dell’autopubblicazione. Pubblicare con un piccolo editore è quasi (sottolineo quasi) come autopubblicare, ma con introiti molto minori. Non c’è un percorso aperto dalla pubblicazione con un piccolo editore verso quella con un medio, e poi con un grosso editore. Un tempo credevo funzionasse così. In realtà quel sentiero non c’è. Per ora resto intenzionata a tentare con l’editoria tradizionale, mirando alto. Tanto ad abbassare le creste ci pensano i fatti! 😉
Serena dice
Hai perfettamente ragione, mi riferisco in particolare alla credibilità. Tanto per cominciare, non c’è un senso di gruppo o di appartenenza, tra gli autori Indie italiani. Non ho fatto ricerche approfondite, ma non credo da noi esista niente di simile alla Alliance of Independent Authors, per esempio, né di altrettanto forte. Il riconoscersi in un gruppo genere automaticamente degli standard, dei requisiti di appartenenza, per cui alla fine diventano quasi scontati l’editing e la copertina professionali. Quasi. Le schifezze ci sono dappertutto. Comunque la non credibilità è della categoria, non del singolo. Se metti nel mondo un bel libro, editato professionalmente e con una bella copertina, sei credibile. Se no, non lo sei. Indipendentemente da chi ti pubblica e come.
Tu, secondo me, per il fatto che hai più di un libro già pubblicato all’attivo, sei una dei pochissimi che può puntare alla pubblicazione tradizionale con un Big, traendone vantaggio (attenta a cosa firmi, però 😛 ).
Grazia Gironella dice
Essere rappresentata da un agente dovrebbe offrire qualche sicurezza in più. Hai ragione sul fatto che non c’è aggregazione tra gli indie, e questo rende gli standard più bassi. Negli Stati Uniti tendono tutti a creare gruppi professionali con protocolli concordati, anche gli editori e le agenzie letterarie. Non tutti aderiscono, naturalmente, ma questo mette un punto interrogativo sulle prestazioni dei dissidenti. I clienti a quel punto vogliono vederci più chiaro, perciò c’è una forma di controllo reciproco. Qui, però, non siamo là. 😉
animadicarta dice
Ci sono punti che condivido in quest’articolo, anche se forse è un po’ radicale mentre credo che la realtà sia più sfumata. Attenendomi alla metafora di vedere/affittare, mi vengono da fare delle considerazioni. Se affitti una casa per esempio, hai il vantaggio che il padrone di casa si sobbarca alcune rogne e molte responsabilità restano a lui. Se invece la acquisti hai molti problemi e oneri a cui fare fronte. Però esiste anche il caso in cui il padrone di casa è tutt’altro che disponibile e non si interessa affatto della sua proprietà o delle esigenze del suo inquilino. Quindi mi sento di dire “dipende”. Penso che vadano sempre messi pro e contro sul piatto della bilancia, valutando caso per caso. Il cedere i diritti a una CE ha enormi svantaggi se si tratta di una CE piccola che si comporta come un cattivo padrone di casa. Grandi vantaggi ci sono invece se sa fare il suo lavoro.
Personalmente, avendo sperimentato la cessione, ho deciso di prendere in seria considerazione l’ipotesi di tenermeli per il prossimo romanzo, a meno di incontrare l’editore dei miei sogni…
Grazie comunque per aver fatto la traduzione questo articolo, una lettura interessante.
Serena dice
Grazie a te per avere commentato 🙂 Io credo che, per chi può scegliere (come credo sia il tuo caso) sia consigliabile valutare volta per volta quale scelta di pubblicazione sia la migliore per quel determinato tipo di libri. Purtroppo ho paura che in molti casi non ci sia scelta: o self, o un tubazzo, e non è detto che sia per forza perché il romanzo è brutto. Potrebbe essere solo non commercialmente interessante! Un autore con un buon seguito è un autore libero di scegliere come preferisce. Chi è un autore con un buon seguito? Ne parlavamo con Marco Freccero: bastano 1.000 fedelissimi e si può vivere di scrittura (se continui a produrre, ovvio 🙂 )
Giuse dice
Non saprei, devo ancora decidere, anche se l’auto-pubblicazione mi piace tanto!
Marco Amato dice
Condivido il post e non so perché… 😀
C’è però da circoscrivere. In realtà, in questo pezzo, Howey, dice parecchie cose interessanti, ma non dice tutto. Molto è scritto tra le righe. Lui si rivolge a scrittori e aspiranti tali statunitensi, o comunque in lingua inglese. Molti dei concetti che sottintende, per il suo pubblico sono assodati. Da noi no, purtroppo. Da noi il self publishing è considerato una roba da sfigati, e il termine Indie a molti sembra che si stia parlando degli indiani.
Ad esempio, uno dei punti fondamentali di Howey che qui solo accenna, è la voglia di darsi da fare dello scrittore. Guardiamo la differenza concreta.
Lo scrittore che si affida a una casa editrice è sostanzialmente passivo. Con la cessione dei diritti, di fatto delega all’editore il proprio destino. È convinto che sarà l’editore a occuparsi del marketing e dell’affermazione della propria opera. Sì certo, come no. Mondadori sfodererà un mega ufficio stampa, il piccolo editore, un annuncino sui social. La promozione durerà da un mese ai sei mesi e poi l’oblio. Se in quel periodo sei emerso, applauso, altrimenti bisboccia. Ritenta al prossimo romanzo. E siccome viviamo in un mondo spietato, la quasi totalità degli scrittori che pubblicano tramite editore è destinato all’oblio. Lo scrittore partecipa alla promozione nella misura in cui l’editore lo manda a fare presentazioni. Nella maggior parte dei casi in queste presentazioni non partecipano più di 10 persone.
Viceversa il self publisher deve fare tutto da solo. Pone il “proprio” destino sulle “proprie” mani.
Adesso ditemi, così a occhio, chi può mettere più passione nel perorare il proprio romanzo, uno scrittore che ha delegato le sue fortune a un editore, che sforna romanzi su romanzi per campare, o l’autore self che cura la propria opera come una meraviglia?
Adesso centriamo il punto di Howey da questa prospettiva. Affittare o Possedere.
Uno scrittore che cede i diritti, cede la quasi totalità dei proventi del romanzo. E di norma parliamo di Royalty all’autore del 7/10%.
Mentre l’autore in self percepisce il 70% dei proventi. Possiedi la tua opera.
Ragioniamo su questa logica.
Se del libro l’editore vende 300 copie a 10€ allo scrittore andranno 300€ (abbondiamo) ma solo dopo 18 mesi.
Viceversa, se l’autore Indie vende 300 copie a un prezzo di 3,90€, andranno 840€, incassati ogni 60 giorni. (E sul prezzo di vendita dell’autore Indie ci sarebbe da scrivere parecchio).
Sono cifrette e siamo d’accordo. Ma in più, l’autore che pubblica con l’editore è al buio, non ha report di vendite, non sa come sta andando il suo prezioso romanzo. Sta lì a fremere e sperare, ma oltre la speranza resta poco. Poi dopo sei mesi, un anno o più, l’editore manda il sospirato resoconto. Complimenti alla celerità del feedback.
Viceversa nelle piattaforme di self hai report mensili. Mese dopo mese controlli con i tuoi occhi, se il tuo marketing è efficace, se non sta funzionando e conviene cambiare strategia, ecc…
Quindi secondo la logica umana, un autore in self che vede riscontri sul suo romanzo, e vede che il suo lavoro ha un minimo di successo, un tornaconto economico, trae dalla scrittura entusiasmo, linfa vitale. È in proprio, POSSIEDE. Ha voglia di scrivere il prossimo romanzo, ascoltare i propri lettori, elaborare nuove idee. Si proietta in un circuito virtuoso che tende a farlo crescere.
Viceversa, lo scrittore che ha delegato la propria opera e il proprio destino ad altri è in AFFITTO, passivo, arrendevole. Se i riscontri dopo un anno sono scarsi, frasi tipo: “tanto emergere è impossibile” diventano il suo verbo quotidiano.
In sostanza chi va in self con la consapevolezza del proprio ruolo, non fa altro che autodeterminarsi. E scusate se è poco.
Scusami anche tu Serena, mi son dilungato. Ma quando ci vuole ci vuole. 😉
Serena dice
Ciao Marco 😀 ti aspettavo! È molto vero che c’è da leggere tra le righe, nel post. Il discorso della qualità, per esempio. Hugh parla ad un contesto che ormai dà per scontato l’editing e la copertina professionale, e l’immissione sul mercato di un prodotto di qualità elevata. Tanto per fare un esempio. Così a occhio da noi queste cose ancora non possiamo darle per scontate; da noi nella testa di tante persone la qualità può transitare solo dal portone d’ingresso di una CE tradizionale.
Io trovo che il concetto di base, di come cambiamo di fronte a qualcosa di nostro, sia bello e applicabile ad un sacco di cose oltre ai libri. Per esempio, vale anche per le persone della nostra vita. E sulla cura che si deve, e spesso si ha spontaneamente, per ciò che ci appartiene, si potrebbe andare a rileggere Le Petit Prince di Saint-Exupéry. Il principino e la sua Rosa. Che bello *_*
Io credo semplicemente che lo scrittore self, come viene inteso nell’articolo, è quello che alla fine conserverà la passione, la salute mentale e che probabilmente continuerà a scrivere nonostante il mercato. Nonostante tutto.
Sono stanchissima perché ieri sera sono andata a dormire molto tardi. Ma rimani qua in giro che poi ritorno, con altri pensieri, magari un po’ più lucidi. E confermo che qui puoi perorare la causa del Self Publishing quanto vuoi XD
Marco Amato dice
Ah no, c’è poco da perorare alla causa. Credo che ciascuno debba compiere il percorso che ritiene più opportuno per sé.
Mi rendo conto che certi concetti siano difficili da assimilare. Da questo punto di vista a me concepire il self publishing viene naturale per la mia storia di vita. Non ho mai scritto un curriculum e non saprei nemmeno come si fa. Mi sono sempre autodeterminato, realizzando anche cose che erano improbabili o che altri avrebbero scommesso zero su di te. La verità è semplice, e non c’è modo di ignorarla. Emergere è difficile, self o non self. Io tutto quello che posso fare è giocarmi le mie opportunità. Giocarle al meglio. Sto preparando una strategia di pubblicazione mai compiuta in Italia e che sarebbe innovativa anche in Usa. Posso solo mettercela tutta, ma poi se la scrittura non è nei miei talenti, ci sarà poco da fare. L’importante è crederci fino a che l’evidenza non dimostri che hai torto.
Però comprendo appieno chi non coglie le opportunità che la tecnologia offre. È sempre importante avere rispetto e dare una mano quando qualcuno ne ha bisogno.
Serena dice
Certo. Lo dicevo anche all’inizio del post, che tra il bianco e il nero ci sono le infinite sfumature del grigio. Hugh va giù abbastanza pesante, invece XD
A me piace passare informazioni e mostrare, se posso, alle persone che hanno molto più potere di quello che ritengono, anche in un mercato tanto difficile. Dove per potere si intende, alla fine, praticamente solo quello dell’autodeterminazione. Che è tantissimo.
Poi Joanna Penn ha scritto un bell’articolo che si chiama “Stop Asking Permission” o qualcosa del genere. E io là mi ci ritrovo molto, per la mia storia di vita. Così a occhio credo sia la stessa cosa anche per te.
Mandatemi a dormire, se no domani chi si alza più? +____+
Daniele dice
Non sono molto d’accordo. Tu comunque hai sempre la paternità della tua opera. Neanche a me piace l’affitto, ma per un libro è diverso, anche perché non lo ritengo un affitto se pubblico con un editore.
Serena dice
Credo che dipenda da cosa firmi, da quanto cedi del tuo potere decisionale. Non so se ti ricordi, nel post precedente a questo anche Sandra, che tendenzialmente preferisce la pubblicazione tradizionale, diceva NON FATE COME ME, NON CEDETE I DIRITTI! 🙂
Perché se hai la paternità (o maternità) della tua opera, ma non hai più voce in capitolo su niente, io credo che debba essere brutto. O no?